Luoghi comuni contro rom e sinti: eccoli sfatati e capovolti!

 
E’ un bel po che non scriviamo!:) Allora, ho ricevuto per email questo interessante studio riguardo ai Rom e i Sinti, e considerato il clima securitario e paranoico verso cui la società italiana si incammina, considerando soprattutto che ormai la gente come è piu efficiente dei poliziotti nel dar fuoco ai campi nomadi, mi sembrava davvero il momento di cominciare a ragionare e a comprendere la situazione per vedere come muoversi.

Leggetelo, forse è un po lungo, ma vi assicuro che è molto interessante, soprattuto per sfatare i pregiudizi verso i Rom, e capovolgerli! Leggetelo, poi scrivete che ne pensate, okkei?

2008 Luoghi comuni contro rom e sinti

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte prima: i ladri di bambini (1 di 4)

di Alberto Prunetti

[Pubblico la prima parte di questo articolo mentre i telegiornali lanciano
l’ennesimo scoop su una presunta organizzazione rom dedita allo sfruttamento
dei bambini. Non conosco ancora la vicenda nel merito, ma sappiamo, da altri
episodi, qual è la manipolazione sensazionalistica che si cela dietro a
operazioni di polizia di questo tipo.

Non posso nascondere il fatto che le
condizioni in cui molti bambini rom vivono siano obiettivamente negative e
disumane. Il problema è che le istituzioni per queste condizioni incolpano i
rom e la loro cultura, e non se stesse, che di queste condizioni sono
responsabili. Se avremo notizie sugli episodi di cui oggi parlano i
telegiornali – e per notizie intendo qualcosa di più del frettoloso rimpasto
delle veline della questura – interverremo anche nel merito dell’episodio in
questione. Per ora basterà leggere le righe che seguono per vedere come lanci
giornalistici simili si sono dimostrati operazioni di criminalizzazione volte
ad alimentare lo stereotipo del rom ladro, infingardo, sporco e pericoloso per
il benessere dei suoi stessi figli.]A.P.

Lo scopo di questo articolo è quello di rimettere in discussione e confutare
alcuni luoghi comuni su rom e sinti. In particolare verranno esaminati alcuni
asserti che il senso comune dà per assodati e che i media contribuiscono a
radicare. Si vedrà che molti di questi giudizi nascono dalla necessità di
creare un allarme sociale e da un diffuso pregiudizio e non sono confermati da
dati concreti. Più avanti vedremo anche che una serie di paletti giuridici
permettono di sovrarappresentare statisticamente i medesimi luoghi comuni. Ho
diviso questo articolo in tre parti. Nella prima parte analizzerò il luogo
comune secondo cui i rom rubano i bambini. Vedremo che questa asserzione è
decisamente confutabile nella prima parte del mio intervento e si vedrà nella
seconda parte che la verità è – purtroppo e molto spesso – il contrario di
questa menzogna: andando per generalizzazioni, sarebbe più realistico dire che
gli italiani “rubano” i bambini dei rom. Infine, nella terza parte prenderemo
in discussione altri luoghi comuni: il fatto che i rom delinquono più degli
italiani, che non mandano i bambini a scuola, che vogliono vivere come nomadi
nei campi.

Prima di tutto voglio spiegare quale coincidenza mi ha spinto a scrivere queste
righe. Mi ritrovo una sera in una cena a casa di un amico, ci sono altri
conoscenti e alcune persone mai viste. Arriva Teresa, una ragazza piccola e
scura, dall’aria fricchettona, con capelli ricci e abiti molto colorati. Con
lei c’è anche una bambina: biondissima e cogli occhi azzurri, sembra
nordeuropea. So che la ragazza fa l’educatrice e penso che la bambina sia la
figlia di qualche amica o una delle bambine con cui lavora. Invece rimango
sorpreso quando la bambina la chiama mamma. Ovviamente la genetica gioca a
dadi, ma i carabinieri scherzano di meno. Teresa intuisce le ragioni del mio
stupore e mi racconta di aver passato un brutto quarto d’ora con le forze
dell’ordine: l’hanno fermata in auto per un normale controllo. Ovviamente non
aveva i documenti della bambina: prima di quindici anni non si fanno di solito
i documenti, se non si viaggia all’estero. I carabinieri hanno incalzato la
ragazza, accusandola di essere una “zingara” e di aver rubato la bambina.
L’equivoco alla fine è stato risolto, ma rimane un dubbio inquietante: cosa
sarebbe successo se la mamma scura, ricciola e fricchettona, fosse stata
veramente una rom? In assenza di un certificato di nascita della piccola
(elemento comune a tanti genitori rom), la bambina sarebbe stata probabilmente
portata via dalla propria mamma e Teresa sarebbe stata sbattuta sulle prime
pagine dei giornali come ladra di bambini. Certo, il fatto sarebbe forse stato
spiegato dopo qualche giorno, e allora avrebbe goduto del risalto che può dare
un trafiletto in una cronaca locale. Nelle convinzioni delle persone,
rimarrebbe confermato lo stereotipo: i rom rubano i bambini.

Cominciamo a ragionare su questa asserzione, a partire dai dati ufficiali: non
esiste alcun riscontro, nei dati diffusi dalla polizia di stato, di casi di
minori italiani rapiti da rom. È una bufala, una leggenda metropolitana, come
quelle diffuse durante il ventennio sugli ebrei e serve solo per alimentare
l’odio nei confronti di questa minoranza. Da fonti Reuter, e sulla base dei
dati forniti dalla polizia di stato, i minori scomparsi in Italia nel periodo
1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni) sono stati “portati via” da uno
dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di bambini
stranieri, sono casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a istituti,
bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi irreperibile
assieme al figlio.
Per quanto riguarda i minori di età tra i 10 e i 14 anni e tra i 15 e i 17
anni, prevalgono tra gli italiani i casi di ragazzi allontanatisi
volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono presenti tra
gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in cui i minori
sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori (in questi ultimi
casi qualche romantico parlerebbe non di rapimento, ma di evasione, per
intenderci).

A questo punto l’obiezione classica è questa: “”ma io mi ricordo di almeno un
caso visto al telegiornale di una rom che si è portata via un bambino sotto la
gonna”… del resto, si sa, ce l’hanno insegnato a scuola le maestre: “Bambini,
state attenti, ci sono gli zingari…. portano via i bambini”. Beh, prendiamo in
esame alcuni casi recenti, che hanno un valore esemplare.

_Lecco, 14 febbraio 2005. Tre donne rom rumene sono accusate di aver tentato di
rapire un bambino. Una donna le ha denunciate: secondo le sue dichiarazioni due
rom si sono avvicinate mentre lei camminava per strada spingendo il passeggino.
La donna dice di aver sentito dire a una “prendi bimbo, prendi bimbo”. A quel
punto la madre italiana si è messa a gridare, ha preso il bambino in braccio e
ha dato un calcio a una rom per allontanarla. Le tre rom sono state arrestate
poco dopo, mentre passeggiavano tranquillamente vicino alla Caritas. Due erano
maggiorenni e sono state immediatamente portate davanti a un giudice, l’altra,
minorenne, non può secondo l’ordinamento italiano essere giudicata per
direttissima. Le due donne avevano due opzioni, secondo l’avvocato d’ufficio:
dichiararsi innocenti, rimanere in carcere e aspettare a lungo un processo, per
poi provare a chiarire le circostanze, col rischio di ricevere comunque una
pesante condanna; in alternativa, dichiararsi colpevoli, chiedere il
patteggiamento della pena (una pratica tipica di molti immigrati che non
possono ottenere avvocati a pagamento o aspettare i processi fuori dal carcere)
e sperare in una condanna leggera, ammortizzata dalla condizionale. Le due rom
hanno patteggiato, sono state condannate a otto mesi: pena sospesa con la
condizionale in assenza di precedenti.
Questa condanna ha scatenato un’eco di sdegno patrio: giornali e telegiornali
hanno riportato le dichiarazioni di politici, di Presidenti di istituzioni, di
rappresentanti di Osservatori per i minori. Tutti inferociti per il lassismo
della giustizia italiana, invocavano a pieni polmoni la famosa Tolleranza zero,
mentre la Lega Nord
ricopriva di volantini la
Lombardia, sotto la consegna “giù le mani dai nostri
bambini”.

Peccato che le donne erano innocenti, e la loro innocenza è stata dimostrata
nel momento in cui la terza rom, quella minorenne, ha subito un processo senza
dichiararsi colpevole davanti al Tribunale dei minori. Secondo quanto
dichiarato dal PM, “…il contesto in cui si è svolto, […], il fatto che la
piccola nomade che ha allungato le mani verso il passeggino tenesse in una un
bicchiere per le elemosine, che le zingare non siano scappate…[…] ci fa
ipotizzare ad (sic) una forma di minacce e nulla più”. Nessuno si è scusato per
quello che le donne rom hanno passato, o per il fatto che le due che hanno
patteggiato non hanno ricevuto una difesa legale decente.

_Mazara del Vallo, settembre 2004. Denise Pipitone, tre anni, scompare
misteriosamente. Il fatto ha una enorme eco mediatica e si fanno ipotesi
diverse. Un mese dopo a Milano una guardia giurata vede al mercato una bambina
che gli ricorda Denise (vista in foto sui giornali), assieme ad alcune
“nomadi”. L’uomo scatta alcune foto col suo cellulare e sporge denuncia. Dopo
qualche tempo la polizia identifica la bambina della foto con l’aiuto di alcuni
rom rumeni. Si tratta neanche di una bambina, ma di un bambino rom, figlio di
una coppia che vive in un campo milanese. La notizia (anzi: la smentita) non
viene passata ai giornali, perché riservata a fini investigativi. Nonostante
questo nel marzo 2005 i giornali scrivono ancora che la madre di Denise è
sicura del fatto che la bambina fotografata dalla guardia giurata sia Denise.
Sulla base di una notizia che la polizia conosce come falsa, i campi nomadi
italiani sono di nuovo perquisiti (Cfr. L’Arena, 24 marzo 2005).

_Milano, 21 aprile 2005. Giornali e televisioni lanciano la notizia del
rapimento di un bambino rom rumeno, prelevato da alcuni rom dall’interno del
Centro per i Bambini Maltratti (CBM) di via Spadini. Stefan, questo il nome del
bambino, era stato preso sei mesi prima dai carabinieri, che lo avevano trovato
mentre dormiva sotto un albero. I genitori non avevano potuto vederlo e secondo
i giornali il bambino era oggetto “di violenze subite in famiglia” (Repubblica,
23 aprile 2005). Il 28 aprile Stefan viene individuato dalla squadra mobile in
casa di una persona che si è offerta come mediatore. Il ragazzo è tranquillo e
vicino ai familiari, ma i giornali titolano: “Fine dell’incubo” (Il Corriere
della sera, 29 aprile 2005). Il Tribunale dei Minori stabilisce il 5 maggio che
il bambino dovrà tornare al CBM, ma che può vedere con regolarità i genitori,
secondo i suoi desideri. Infatti Stefan, – ci ricorda il legale della famiglia,
Stefano Cozzetto – “non ha mosso alcun addebito ai genitori, né di natura
sessuale né di altro genere”.

_Palermo, luglio 2007 La notizia dell’arresto di M. F., una “nomade” di 45
anni, compare su tutti i telegiornali italiani come lancio d’apertura. La donna
è accusata del tentato rapimento di un bambino di tre anni su una spiaggia
siciliana. Interrogata, in un primo momento si rifiuta di rispondere alle
domande (forse mal consigliata dagli avvocati), e questo fatto alimenta i
sospetti su di lei. In pochi giorni la situazione viene chiarita. La principale
testimone a suo carico è una donna che stava in spiaggia e che ammette
candidamente agli inquirenti “di essere terrorizzata dagli zingari”. La donna
italiana ha visto la rom, ha avuto paura e si è messa a strillare. In seguito
ha ammesso di aver avuto solo “la sensazione” che M.F. volesse portar via il
bambino. In realtà il bambino stava correndo, M.F. si è piegata verso di lui e
la sua gonna si è un po’ aperta. Interrogata dagli inquirenti, la testimone (e
unica accusatrice), ha ritratto l’accusa. La stessa azione, compiuta da una
bagnante italiana, sarebbe stata considerata come un atto di premura e
gentilezza: compiuta da una rom, è diventata un tentativo di rapimento che è
finito sulle prime pagine dei giornali. Ancora oggi, a distanza di qualche
mese, ho provato a citare vagamente l’episodio parlando con alcuni conoscenti:
tutti si ricordano il “tentato rapimento”, ma la notizia della scarcerazione di
M.F. e la sua innocenza è stata trasmessa con minore enfasi e quasi nessuno ha
saputo raccontarmi l’episodio in tutta la sua integrità. Nell’immaginario
collettivo, un altro bambino è stato rapito dagli zingari. Eppure non è vero.

Episodi come questi sembrano utilizzati ad arte per rinsaldare stereotipi
negativi e per creare campagne d’allarme che radicalizzano l’odio contro i rom
e preparano degli scenari dal punto di vista giudiziario e repressivo sempre
più pesanti: per gli immigrati come per i cittadini italiani.

In questa prima parte abbiamo riportato alcuni casi importanti e noti, oggetto
di campagne mediatiche allarmistiche e approssimative. In questi casi si è data
enorme evidenza all’ipotesi del rapimento da parte dei rom – spacciato come una
verità incontrovertibile – e si è dedicato solo uno spazio minore (privo di
valore euforizzante: nei trafiletti della cronaca locale, ad esempio) alle
smentite. In questo modo l’opinione comune, invece di destrutturare il
pregiudizio sui rom ladri di bambini, ha visto rinsaldata quest’immagine anche
in presenza di evidenze contrarie.

Nella seconda parte dell’articolo, che sarà on line tra alcuni giorni,
prenderemo in considerazione l’altra metà del problema, quella che forse è la
verità celata dai media. Il fatto che molti bambini rom sono “portati via”
dagli italiani.

Prima vorrei tornare a parlare della bambina bionda e della mamma scura,
incontrate per caso in una cena. Mentre tutti sono rimasti scandalizzati per la
mancanza di sensibilità dei carabinieri, a me è venuto da dire che questo era
un esempio di una tremenda prassi di criminalizzazione dei rom. Non l’avessi
mai fatto: un tipo che non conoscevo ha iniziato a dire che i rom sono gente
che non hanno né patria né bandiera e che – pertanto? – rubano i bambini. Ora:
al di là del fatto che almeno una bandiera ce l’hanno, e al di là del fatto che
di solito è proprio chi ha una patria e una bandiera che poi commette i
peggiori crimini contro l’umanità, aldilà di tutto questo a me sembrava
evidente che l’episodio appena raccontato a tavola fosse un esempio di una
costruzione immaginaria di un crimine. Una montatura insomma mal riuscita,
perché l’indiziata aveva un alibi che reggeva: era italiana. Eppure, proprio di
fronte a un’evidenza contraria, quell’episodio ha infiammato gli astanti e non
è mancato chi si lamentava della cattiveria “degli zingari”. Neanche
l’evidenza, o il disvelamento della menzogna, riesce a dissipare le nebbie del
pregiudizio razziale e i luoghi comuni consolidati. Vediamo se la realtà ci
fornisce qualche elemento per raccontare una storia interessante: gli italiani
“rubano” i bambini dei rom. È un paradosso, perlomeno rispetto al luogo comune
che inverte i poli del crimine, sicuramente una generalizzazione. Eppure,
secondo alcune stime, ci sono stati almeno 500 casi di bambini rom “portati
via” negli ultimi venti anni, in Italia. Ne parleremo tra qualche giorno, su
Carmilla, nel seguito di questo articolo.

Fonti: OsservAzione (centro di ricerca azione conto la discriminazione di rom e
sinti); ERRC (European Roma Rights Center); ERRC, Il paese dei campi, Roma,
Carta, 2000; Sigona N., Monista L. (a cura di), Cittadinanze imperfette, Santa
Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2006.

[Ringrazio gli attivisti rom e gagé che mi hanno fornito materiali,
documentazione, osservazioni e suggerimenti. Ringrazio il fotografo Stefano
Pacini per l’uso della sua foto a corredo dell’articolo.] A.P.

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte seconda: chi ruba i bambini rom? (2 di
4)

di Alberto Prunetti

Nella prima parte dell’articolo ho messo in discussione l’idea che i rom rubino
i bambini italiani. La seconda parte insiste nella sua pretesa di paradossalità
rispetto al senso comune. Non solo non sono i rom a rubare i bimbi italiani:
sono gli italiani a rubare i bambini ai rom. Secondo alcune stime si possono
contare 500 casi registrati negli ultimi venti anni. Una statistica più
dettagliata è in corso d’opera presso una università veneta, ma ancora non se
ne conoscono i risultati.
In genere i rom perdono i loro bambini sullo sfondo di due contesti diversi.

a) un primo scenario (più inquietante, probabilmente raro ma su cui non c’è
molta documentazione) riguarda alcuni casi di bambini rom nati in ospedali
italiani, tolti alle madri in seguito al mancato riconoscimento, o dopo degenze
troppo lunghe e in assenza di visite periodiche dei familiari. Tratterò il
punto a) nelle righe che seguono.
b) un secondo scenario (ampiamente diffuso e documentato) è quello dei bambini
già più grandi, sottratti ai genitori con la scusa che questi non garantiscono
le necessarie cure (abitative, scolastiche, etc.). Al punto b) sarà dedicato il
prossimo capitolo.

Gran parte del quadro giuridico e degli episodi che cito in questo capitolo si
riferiscono agli anni Novanta e può darsi che la situazione sia cambiata, però
i disastri nelle vite dei rom prodotti da queste leggi si fanno sentire ancora
oggi.

La legge italiana – o almeno quella valida negli anni Novanta, quando si sono
registrati i casi indicati di seguito – prevede che il riconoscimento del
figlio avvenga entro dieci giorni dalla nascita. La denuncia di riconoscimento
deve essere presentata dai genitori, o da un delegato, alla presenza di due
testimoni, tutti con documenti d’identità validi. Per gli stranieri, oltre a un
passaporto valido, è necessario un nullaosta al riconoscimento, da presentarsi
sempre entro dieci giorni, che viene rilasciato dalle autorità consolari del
loro paese di origine. Genitori minori di sedici anni non possono riconoscere
in alcun modo il loro figlio.

Questa legge ha posto una serie di problemi ai rom: ad esempio, spesso i rom si
sposano e hanno figli prima dei sedici anni (tra l’altro il costume dei rom
prevede un matrimonio non riconosciuto dalle autorità civili, e questo crea
difficoltà non solo nel riconoscimento dei neonati, ma anche nelle
ricongiunzioni familiari e nei colloqui in carcere); molti rom provenienti
dalla ex Jugoslavia negli anni Novanta non avevano un passaporto valido o
avevano difficoltà a rinnovarlo, per mancanza di uffici consolari o per l’alto
costo dei rinnovi; per la stessa ragione, e per l’inefficienza degli uffici
consolari, è difficile per i rom produrre, entro dieci giorni dalla nascita del
bambino, il nullaosta al riconoscimento.

Ad ogni modo, passati dieci giorni, senza il passaporto e il nullaosta è
impossibile riconoscere il proprio bambino, anche di fronte all’evidenza del
parto o alla testimonianza del personale medico.

Cosa succede dopo il decimo giorno? Il bambino è dichiarato in stato di
abbandono e il Tribunale dei Minori può decidere: a) di affidare il bambino
alla madre (se maggiore di 16 anni) o a un parente affidabile e controllabile;
b) se affidare un bambino prima a un istituto, poi a una famiglia non rom, e
infine darlo in adozione.

La paura di perdere i bambini in alcuni casi ha spinto i rom a evitare di
rivolgersi alle aziende ospedaliere italiane, partorendo i bambini nelle roulotte,
in condizioni igieniche pericolose. Questo in realtà produce un circolo vizioso
da cui si esce con difficoltà: i bambini nascono già clandestini e ricevono
talvolta dei documenti falsi. La loro scoperta induce il solito clamore
mediatico sulla presenza di bambini rapiti, che poi spesso non sono altro che
bambini rom non dichiarati, nati nelle roulotte. Il dilemma per i rom che
vivevano negli anni Novanta in Italia era quindi: rischiare di far nascere un
bambino in un ospedale, con la possibilità che, in caso di clandestinità dei
genitori, il bambino sia affidato a un istituto; oppure farlo nascere nei
campi, cioè nei ghetti, col problema che il bambino diventa ipso facto sans
papiers e i genitori rischiano di essere sbattuti nei telegiornali come ladri
di bambini. Con queste premesse legislative, si finisce in una impasse da cui
non si esce.

A queste difficoltà ne va aggiunta un’altra: il fatto che i bambini rom possono
portare dei cognomi diversi da quelli dei genitori. Questo dipende da più
variabili: se chi fa il riconoscimento è il padre, se la madre, o altri
parenti; se il riconoscimento avviene in Italia o nei paesi balcanici. Ad
esempio, mi è stato fatto notare che il codice di famiglia rumeno permette di
dare al figlio il cognome che la madre aveva prima del matrimonio. A questo si
aggiunge il caso di rom con documenti scritti con caratteri cirillici, o con
una combinazione, almeno nei nomi propri, di caratteri cirillici e latini, che
dà luogo a tutta una serie di problemi di traslitterazione. Il risultato è che
gli agenti di polizia tendono ad innervosirsi quando incontrano bambini rom che
hanno cognomi diversi da quelli degli adulti che sostengono di essere i
genitori: eppure è una questione che si spiega facilmente considerando tutti
gli elementi detti sopra.

I rapporti tra rom e ospedali italiani sono talora difficili anche per un’altra
ragione. Talvolta i rom, coscienti delle difficoltà per i bambini ammalati di
trascorrere l’inverno in una baracca di lamiera non riscaldata, lasciano i loro
figli negli ospedali, anche per problemi non gravi, per periodi lunghi. Per
quel che sostengono alcune donne rom, ci sono ospedali che comprendono le loro
difficoltà e chiudono un occhio su questa pratica, permettendo ai bambini di
sopravvivere nei giorni più rigidi. Se però la permanenza si fa lunga e le
visite dei genitori rare, l’ospedale deve avvertire le autorità competenti, che
possono emanare un decreto di abbandono, affidando allora il bambino prima in
un istituto, e poi in affidamento a una famiglia, che è l’anticamera
dell’adozione.

Molte donne rom hanno perso i bambini così. I servizi sociali degli ospedali
non conoscono bene la cultura rom, e soprattutto non hanno ben presente la loro
situazione qui in Italia: le madri che lasciano i bambini in ospedali non sono
spesso nomadi, tutt’altro: talvolta sono impedite nei movimenti dalle autorità
di polizia, altre volte sono obbligate a una sorta di nomadismo coatto:
incorrono in fogli di via, in traslocazioni forzate in luoghi lontani dalle
città, in pratiche che le impediscono di fare ritorno negli ospedali. Alcune
volte le donne rom vengono incarcerate, anche per tempi molto brevi, magari
venti giorni di condanna per direttissima per un furto di un pezzo di cacio in
un supermercato (un reato che non vedrebbe mai un italiano o un non rom finire
dietro le sbarre): quando la donna esce si trova in mano un foglio di via, e ci
vogliono settimane prima che possa tornare a visitare il figlio all’ospedale
(magari infrangendo un divieto amministrativo di allontanamento dal territorio
comunale emanato arbitrariamente dai vigili urbani al momento dell’uscita dal
carcere). Può capitare che, dopo il carcere e il foglio di via, la rom arrivi
in ospedale e scopra che il suo bambino non c’è più. In queste circostanze diventa
difficile per i rom fermare le pratiche di affidamento/adozione, considerato
anche l’analfabetismo di molte coppie, che hanno difficoltà a interagire con la
burocrazia italiana né possono rivolgersi facilmente ad avvocati a pagamento.

Riassumendo, i problemi che possono insorgere negli ospedali italiani sono di
due tipi: mancato riconoscimento e dichiarato abbandono per degenza troppo
lunga e non intervallata da visite periodiche. Il risultato, in una serie di
casi è l’affidamento del minore. A quel punto spesso è difficile riuscire a
recuperare il bambino per le famiglie rom, anche perché una volta che il
bambino è affidato i genitori naturali non possono conoscere la sua residenza.
A questo scenario bisogna segnalare un caso diverso, e più inquietante, che mi
è stato segnalato da Piero Colacicchi, presidente della onlus OsservAzione che
da anni si batte contro la discriminazione ai danni dei rom. Secondo
Colacicchi, “una quindicina di anni fa apparve evidente che a troppe famiglie
rom dimoranti nel circondario di Firenze veniva reso difficile iscrivere i loro
neonati all’anagrafe, neonati che poi venivano dichiarati in stato di abbandono
e quindi in necessità di adozione”. A quel punto alcune infermiere di un
ospedale fiorentino furono citate in giudizio. I termini esatti
dell’imputazione non si conoscono, ma si trattava, nelle parole di Colacicchi
“di aver presentato come così complesse le pratiche di iscrizione all’anagrafe
da rendere tale iscrizione impossibile nei termini di legge.” Il processo però
non venne mai celebrato ed il reato cadde
in prescrizione.

Quest’ultimo caso è addirittura esorbitante, ma già la norma di legge, se non è
cambiata negli ultimi anni, non riesce a tutelare i minori rom. Anzi: negli
anni Novanta li ha posti in una situazione allucinante. Vedremo nel prossimo
capitolo che la situazione ai nostri giorni non è più rosea: forse negli
ospedali la situazione non è più tanto grave, ma ancora adesso i bambini dei
rom vengono sottratti ai loro genitori, sulla base dell’idea che i rom non si
preoccupino delle loro condizioni di salute, o della loro formazione
scolastica, o si divertano a farli dormire all’addiaccio. Nel prossimo capitolo
ci occuperemo di questa situazione, dimostrando che nasce da un’urgenza
ipocrita: coloro che vogliono tutelare i piccoli rom sono gli stessi che il
giorno prima li hanno sbattuti per strada, distruggendo con le ruspe le loro
abitazioni di fortuna.

[Ringrazio Piero Colacicchi di Osservazione e il fotografo Stefano Pacini per
l’uso della foto. Fonti: P. Brunello (a cura di), L’Urbanistica del disprezzo,
Roma, Il Manifesto, 1996] A.P.

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte terza: il caso L.S.C. (3 di 4)

di Alberto Prunetti

Firenze, piazza della stazione di Santa Maria Novella. Sono circa le 23 del 5
ottobre 2007. I vigili urbani che pattugliano la zona, abituale ritrovo di
tanti immigrati costretti a dormire all’aperto, identificano una coppia di rom
rumeni, D.S. e D.S., e la loro bambina, L.S.C. La polizia municipale diffida il
padre “a tenere la propria figlia L.S.C. in uno stato di disagio costringendola
a dormire, durante tutto l’arco della giornata, all’aperto e allevandola
conseguentemente in luoghi insalubri e pericolosi.” Il padre della piccola rom
viene anche avvisato che “nel caso la bambina fosse rintracciata dagli organi
di polizia continuamente in uno stato di disagio gli stessi, ai sensi dell’
art. 403 c.c., provvederanno a collocare la minore L.S.C. in un luogo
sicuro[…]”

Ma qual è la storia di questa coppia di rom che è costretta a vivere per
strada?

D.S. e D.S. – padre e madre hanno nomi diversi ma le stesse iniziali – arrivano
un giorno a Firenze dalla Romania. Una coppia di trentenni in fuga dal loro
paese, stanchi di soffrire la fame, di lavorare per i vari padroni di turno, molti
dei quali italiani, un mese sì e tre no, in cambio di quattro spiccioli. Un
giorno preparano sacchi e valigia e coi loro due bambini, il maschio più
grandicello e la piccola, nata nel 2002, arrivano nel capoluogo toscano.
Comincia una vita ancora più difficile, appoggiati a situazioni di fortuna,
nella periferia fiorentina. Le loro condizioni attirano l’attenzione degli
assistenti sociali, che invece di darsi da fare per fornire, come si fa nella
maggior parte dei paesi europei, un aiuto all’alloggio e un sussidio,
cominciano a togliere alla coppia il figlio maggiore, che viene trasferito in
una comunità in provincia di Arezzo.
Intanto il padre, attraverso il tam-tam dei migranti, riesce a inserirsi nel
giro dei lavavetri. Il lavoro ai semafori è integrato da un’altra attività
precaria: D.S. è bravo con la fisarmonica, e la sera gira per i ristoranti per
ottenere qualche euro dai turisti. Ma, in attuazione dell’ordinanza del sindaco
Domenici contro i lavavetri, i vigili urbani gli sequestrano lo spazzolone col
secchio. Gli rimane ancora la fisarmonica e con questa continua per un po’ a
suonare per i ristoranti. Peccato che a Firenze ci sono tanti intrattenitori di
successo e un intrattenitore abusivo non serve a niente: gli portano via anche
la fisarmonica.
Eccolo qui il sogno italiano di questo rom rumeno, costretto a vivere ormai di
elemosina con moglie e figlia appoggiate contro il muro della stazione. Finora
gli italiani gli hanno portato via un figlio, lo spazzolone, la fisarmonica. Ma
non è finita. Dopo quella sera del 5 ottobre, gli portano via anche L.S.C., la
bambina più piccola: prima “tradotta” presso il Centro Sicuro di Firenze e in
seguito spostata in un luogo segreto.

Nonostante il dolore e i pochi mezzi, i genitori non si danno per vinti. Devono
sbrigarsi ed evitare altri colpi della sfortuna: dovessero ricevere in base al
decreto Amato un’ingiunzione di allontanamento dal territorio nazionale, i
servizi sociali avviserebbero il Tribunale dei Minori del fatto che i genitori
non si sono curati di ricercare la bambina e dopo cinque o sei mesi L.S.C.
verrebbe data in adozione. Attivano alcuni canali. Grazie a una associazione di
volontariato vengono a sapere che la bambina è stata trasferita in provincia di
Grosseto. Si muovono anche dei loro amici rom che vivono sul territorio
maremmano. Alla fine scoprono che L.S.C. si trova in un istituto nei pressi di
Follonica.
A questo punto l’associazione di volontariato aiuta i genitori a ottenere un
colloquio col Tribunale dei Minori. Per ora il primo risultato è stato che la
bambina, accompagnata dal personale dell’Istituto, è stata condotta a Firenze,
per un colloquio coi genitori di due ore. Poi via: ritorno nella prigione
maremmana.

“Troppo bella per essere una zingara”
Questo caso non è una eccezione. Potrei citarne altri, ma sarebbe un elenco
lungo. Rimando alla casistica indicata in due rapporti sulla discriminazione di
rom e sinti in Italia, che cito in coda a questo articolo. Cito solo un caso,
perché paradossale, contenuto in un articolo pubblicato sul sito dell’European
Roma Rights Center. E’ il caso di una bambina rom, Elvizia M., cresciuta nel
campo Casilino 700, che il 14 giugno del 1999 fu tolta ai genitori – sulla base
del presupposto che l’avessero rubata – per il colore degli occhi della bambina:
“troppo bella per essere una zingara”, dissero le autorità, guardando gli occhi
celesti della bambina, lontani dallo stereotipo del rom scuro. Il padre dovette
correre dalla Romania e presentarsi al tribunale per far vedere un paio di
occhi, celesti, belli e sicuramente più umani di quelli che lo circondavano
nell’aula. A quel punto la bambina poté tornare ad abbracciare i suoi genitori.
Il fatto che essere belli significhi non essere rom, o che solo questo basta a
togliere un bambino ai suo genitori, dimostra allo stesso tempo i pregiudizi
degli italiani e la debolezza dei rom nella nostra società.

Pratiche di deziganizzazione
Già prima della seconda guerra mondiale, i figli dei rom venivano sottratti ai
loro genitori per consegnarli a famiglie sedentarie, al fine di disperdere la
continuità culturale ed etnica del loro popolo. La difficoltà sta (come nel
caso della Pro Iuventute svizzera degli anni ’50, che allontanò qualche
centinaio di bambini jenish dalle loro famiglie) nel fatto che l’operazione
passa sempre per caritatevole ed i genitori per criminali. Si tratta di una
situazione paradossale, ingiusta, che nasce dall’idea di proteggere i bambini,
ma che non comprende né le ragioni del disagio né si interessa delle sofferenze
dei genitori. Anzi: diciamo che gli stessi promotori di queste azioni sono
spesso i principali protagonisti della repressione ai danni dei rom, ovvero
collaborano fattivamente ai traslochi forzati, agli sgomberi, alle distruzioni
periodiche degli accampamenti di fortuna dei rom. Ovvero: sono loro a creare il
disagio che poi si riflette sui bambini. Si può anche pensare che magistrati,
assistenti sociali, polizia e vigili urbani agiscano in buona fede quando si
preoccupano della sorte dei piccoli rom: è umano preoccuparsi del fatto che una
bambina di tre anni dorma per strada alla stazione. Ma non capisco chi
ipocritamente dice di preoccuparsi, quando poi è lo stesso che il giorno prima
l’ha sfrattata, lei e la sua famiglia, o le ha distrutto la roulotte,
sbattendola per strada, o ha negato a suo padre la possibilità di racimolare
qualche spicciolo, col sequestro di una fisarmonica e dello spazzolone
lavavetri. Questo non è una preoccupazione morale per la sorte dei bambini.
Anzi. Si fa un uso ipocrita della loro sorte: producendo la miseria che
permette poi di gridare allo scandalo, si fa solo campagna contro i rom,
favorendo la deziganizzazione dei loro bambini e alimentando uno stereotipo
negativo.

[Ringrazio Piero Colacicchi per la conversazione telefonica e il fotografo Stefano
Pacini per le splendide foto. Devo spendere qualche parole per questo taciturno
fotografo che da anni si trascina la sua 35mm, caricata con una pellicola ad
alta sensibilità, per cogliere la “grana grossa” del mondo che lo circonda]
A.P.

[Fonti: OsservAzione (centro di ricerca azione conto la discriminazione di rom
e sinti); ERRC (European Roma Rights Center); ERRC, Il paese dei campi, Roma,
Carta, 2000; Sigona N., Monista L. (a cura di), Cittadinanze imperfette, Santa
Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2006.]

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte quarta: porrajmos (4 di 4)

di Alberto Prunetti

Forse l’unico popolo che non ha mai dichiarato una guerra. L’unico popolo che
non ha mai preteso un territorio da governare, che non ha mai innalzato dei
“sacri” confini da difendere a suon di mitraglia.
Hanno continuato a camminare, spingendosi da oriente a occidente.
Li hanno massacrati i nazisti negli zigeunerlager e nessuno ha riconosciuto il
loro olocausto.
Oggi, più che mai, sono circondati dai sospetti e da pratiche che rendono le
loro esistenze sempre più marginali.

Lessico veltroniano“Bonificare”. “Sanare”. Chi usa questi lemmi da esperto di
profilassi sociale? Il sindaco di Roma, citato in una nota Ansa del 6 dicembre.
Non contento di aver “demolito”, “sgomberato”, “spostato”, “ricollocato” e
“delocalizzato”, commenta i risultati raggiunti nell’urbanistica del disprezzo:
“un lavoro grandissimo, senza paragoni”. Con altri occhi, ai rom rimane il
diritto di usare il termine “porrajmos”, che in rromanì significa sia
“distruzione” che “olocausto”.

Dai verbi ai nomi propri…
Sembravano lontani gli anni in cui gli italiani si scoprirono figli del ceppo
di Ario e la persecuzione dell’ebreo era atto meritorio sancito dai codici
della patria. A quell’epoca non mancava chi, per nascondere le proprie origini,
cambiava il proprio nome. “Mai più!”, giurarono i padri della repubblica. E
invece succede ancora. Casi di rom costretti a cambiare nome per nascondere la
propria identità succedono sempre più spesso. Gli ultimi casi di cui mi è
giunta voce sono registrati a Pescara.

Dai nomi alle cifre…
Ogni giorno siamo storditi da cifre che ci ricordano quanto sono criminali i
cosiddetti “extracomunitari”. Ragioniamo un po’ su queste cifre ^criminali^.
Consideriamo…
– che le cifre riportate da tanti media con abbondanza di zeri non si basano
sulle sentenze ma sulle denunce, che sono statisticamente più elevate e meno
verificabili;
– che queste cifre conteggiano i detenuti in attesa di giudizio. Ora, è vero
che molti stranieri stanno in carcere (nell’attesa, non sempre breve) di un
giudizio, ma è solo qui che si manifesta la loro superiorità numerica.
Prendiamo alcuni dati esposti in uno studio della Fondazione Michelini,
riferiti al carcere fiorentino di Sollicciano. A Sollicciano i detenuti
stranieri sono la maggioranza tra quelli in attesa di giudizio, ma diventano
una minoranza se si considera la popolazione con una pena passata in giudicato.
Questo significa che spesso vengono arbitrariamente arrestati e solo dopo il
processo riescono a dimostrare la propria innocenza. Di fatto,
nell’affollatissimo carcere di Sollicciano, al 4 ottobre 2007 solo il 14,7
degli stranieri stava scontando una pena definitiva, gli altri erano lì ad
aspettare un processo.
– ancora: gli immigrati di Sollicciano stanno in carcere per pene detentive
molto brevi (spesso per aver commesso un solo reato, laddove i residenti
italiani espiano pene molto più lunghe e scontano la violazione di più
fattispecie penali). Questo dimostra che gli immigrati non delinquono più degli
italiani: solo subiscono, checché se ne dica nel becero qualunquismo dei
giornali, un trattamento più severo, senza godere di arresti domiciliari o
sanzioni amministrative alternative, senza l’applicazione di benefici condizionali
e spesso senza un’assistenza forense decente (nessun patrocinio gratuito – per
cui serve residenza e lavoro regolare, anche se mal pagato – e quindi il
ripiego sull’avvocato d’ufficio che, nel minimo sforzo, cerca sempre il
patteggiamento): tutto questo permette, ai tanti che agitano lo straccio della
“tolleranza zero” di sostenere l’equazione criminale=immigrato.
A questo va aggiunto:
– che è in azione una tendenza persecutoria e paranoica che spinge chi ha
subito un furto a denunciare di principio uno straniero;
– che questa tendenza è rafforzata spesso dagli agenti di pubblica sicurezza
che raccolgono le denunce;
– che infine le cifre sui cosiddetti crimini degli immigrati sono ingigantite
da un elemento chiave: il fatto che essendo gli immigrati stati dichiarati
illegali, in quanto obbligati in tanti alla clandestinità, sono ipso facto
criminali, e delinquono per il fatto stesso di respirare dentro all’italico
suolo.

Visto tutto ciò si può affermare che, in genere, gli immigrati non delinquono
più degli italiani. E, se anche accadesse, sarebbe comprensibile che
comportamenti illegali siano più diffusi in quei gruppi sociali che soffrono di
una situazione di disuguaglianza di accesso alle risorse economiche e di
riconoscimento sociale.

Ripassiamo adesso alcuni luoghi comuni contro i rom e i sinti, in maniera un
po’ affrettata (non sono comunque più ragionati i luoghi comuni di chi
stigmatizza gli “zingari” tra un aperitivo e un altro).

Non mandano i loro figli a scuola
Si può anche discutere l’ipotesi che la scuola, come la conosciamo, sia l’unico
modo per creare un percorso educativo, ma non è questo il luogo adatto. Di
certo esiste una corrente di pensiero che parla di descolarizzazione (si pensi
agli scritti di Ivan Illich e alle vie alternative al sistema-scuola nella
costruzione di un percorso educativo), mentre altre ipotesi valorizzano le
culture orali e non letterate, evidenziando alcune facoltà cognitive che la
scrittura e l’alfabetizzazione in qualche modo fanno appassire.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di quei bambini che si trovano
la casa sfasciata dalle ruspe, con i cingoli che passano sopra i loro quaderni.
Coi loro genitori costretti a sbaraccare, a raccattare tra le lamiere qualche
misero bene. Costretti a traslocare ogni tre mesi in qualche posto sempre più
lontano dalla tangenziale che cinge la città. Sempre più lontani dalla scuola.
Una domanda. Riuscireste a mandare i vostri figli a scuola senza una macchina,
vivendo a 15 km
dalla scuola, costretti a un trasloco coatto ogni pochi mesi, e coi vostri
cocci distrutti dalle ruspe? Riuscireste? E se anche ci riusciste, che ne dite
se i vostri figli tornassero a casa imbronciati perché gli altri non rivolgono
loro la parola? Perché i maestri sono stressati dato che i genitori degli altri
bambini hanno minacciato di cambiare scuola solo perché in quella classe ci
sono gli “zingari”… Allora… sono i rom che non mandano i bambini a scuola, o è
la società italiana che fa di tutto perché i bambini rom non riescano neanche a
arrivarci a scuola? (per non parlare dei progetti di scuole dentro ai campi,
che sono delle scuole-ghetto che servono solo a mantenere l’apartheid tra rom e
non rom).

Devono parlare italiano se vogliono stare qui… (con la variante: sono
stranieri…)

Non si capisce perché. Nessuno va a dire una cosa del genere per esempio ai
cittadini americani che vivono nel centro di Firenze. Una colonia di circa
5mila persone, molte delle quali vivono in Italia per un periodo di almeno sei
mesi senza fare neanche lo sforzo di parlare italiano (non basta frequentare i
corsi di lingua: è noto che le lingue si imparano per strada, mescolandosi con
gli indigeni). A Firenze in centro parla inglese il giornalaio, il trippaio,
anche il trombaio (non spaventatevi: è solo l’idraulico). Bene, ormai in centro
a Firenze si parla innanzitutto inglese. E nessuno si lamenta.
Si lamentano invece dei rom, che di solito parlano almeno due lingue (cioè il
rromaì e l’italiano, più in molti il rumeno, o il serbo, o altre lingue del
loro paese di origine): essendo i primi veri europei, i primi ad avere una
coscienza multiculturale, la loro lingua sembra cominciare ad ospitare tante
lingue diverse, quasi fosse un esperanto (o almeno a me, che certo non sono un
esperto di rromanì, e quindi può darsi che mi sbaglio, ha fatto questo effetto
ascoltare per alcune ore di seguito alcune conversazioni di rom).

Sul fatto di essere stranieri. Beh, non è mica una colpa. Per me anzi è un
pregio. Ricordo ancora quei bei vecchietti internazionalisti che si vantavano
d’esser stati “stranieri in ogni luogo” (variante libertaria) o “cittadini del
mondo” (variante comunista). Beh, adesso gli stranieri (poveri) sono visti come
barbari invasori… ma siete sicuri che i sinti siano stranieri? Guardate che in
Italia non ci sono solo i siciliani, i romani, i piemontesi e via dicendo… in
Italia – anche se le istituzioni tardano a riconoscerlo (o forse proprio per
questo) – la gente non si rende conto che si parlano lingue non italiane che
non sono immigrate: sono lingue di italiani che vivono da secoli nella
penisola. I sinti sono italiani quanto i piemontesi o i toscani… sono italiani
da sempre, almeno dal cinquecento,quando anche i miei avi probabilmente erano
arabi o normanni. Ci sono rom che parlano l’italiano come lingua seconda e
sinti e rom che parlano l’italiano come lingua madre, anzi, neanche un italiano
regionale, ma parlano dialetto veneto stretto. Eppure è comodo non riconoscere
questa minoranza linguistica, parlare di loro come se fossero degli stranieri
(al punto che a farsi carico di loro, anche in Veneto e nonostante le loro
carte d’identità, in certi casi è l’ufficio stranieri!).

Sono nomadi… non vogliono una casa…
In realtà pochi rom sono nomadi ai nostri giorni. Molti vivono in case,
facendosi spennare ogni mese con affitti sempre più esosi, come noi. Altri
vivono in quei ghetti che si chiamano campi nomadi. Più che nomadi, questi
ultimi sono concentrati in ghetti. Molti rom, soprattutto quelli rifugiatisi in
Italia dopo i conflitti nella ex-Jugoslavia, prima di arrivare in Italia
avevano una casa. Adesso li chiamano nomadi, alimentando l’idea che non siano
sedentari. Invece sono solo degli sfollati a cui l’Italia non riconosce il
diritto di un tetto. Sono stati “nomadizzati” in maniera coatta. Molti in
realtà non sono affatto nomadi: sono semplicemente senza fissa dimora (secondo
alcune stime le persone senza fissa dimora in Italia sono tra i 65 e i
100mila).
Oggi solo pochi continuano la vita veramente nomade del tempi andati, coi
camper che sostituiscono i carretti d’un tempo. E hanno tutto il diritto di
farlo. L’umanità ha un passato lungo e meraviglioso di nomadismo alle spalle.
Ma non si può agitare l’etichetta di nomadi solo per giustificare i continui
traslochi. Questo non è nomadismo: è deportazione.

Non hanno voglia di lavorare…
Oggi i rom possono accedere solo ai lavori pagati peggio, ai lavori più duri,
in nero, nelle condizioni di sicurezza meno garantite. (E non so se nelle loro
condizioni gli onesti italiani avrebbero tanta voglia di lavorare). Spesso per
continuare a lavorare devono nascondere il fatto che vivono in un campo nomadi.
Altri sono in Italia come richiedenti l’asilo politico, e secondo una legge
paradossale non possono lavorare mentre attendono il riconoscimento della loro
domanda: a volte devono aspettare anche due anni, e al massimo possono ottenere
una borsa lavoro di qualche euro. Spesso non trovano lavoro perché i datori di
lavoro hanno paura di loro.
Infine faccio presente che non aver voglia di lavorare non significa essere
disumani. Direi che è un comprensibile comportamento umano. Molti popoli di
cacciatori e raccoglitori dedicano al lavoro una parte minima della loro vita
quotidiana. Ma anche qui finirei per aprire un altro margine di discorso, e
quindi mi fermo.

Infine… chi difenderà i sacri confini?
Il problema se l’è posto anche Beppe Grillo, spaventato da troppa televisione
(non basta non andarci, a volte è anche meglio non guardarla: sennò si finisce
a credere che il mondo sia pieno di invasori alieni di lingua romena, e poi bisogna
leggersi Carmilla, che è anche una rivista fantascienza, per farsi dire che non
è vero). Gli rispondo con le parole dell’antropologo David Graber. A chi
difende il diritto di circolazione delle merci, limitando il diritto di
circolazione delle persone, Graeber obietta: “se dobbiamo essere globalizzati,
facciamolo fino in fondo: eliminiamo i confini nazionali. Lasciamo che la gente
vada e venga come vuole, e viva là dove più desidera”

Paura? Arriveranno i barbari ad abbeverarsi a San Pietro, come sognava quel
romantico di Coerderoy? Ma facciamo ancora parlare Graeber, che secondo me
coglie il nocciolo della questione: “ Nel momento in cui un abitante della
Tanzania o del Laos non avrà più problemi legali per andare a vivere a
Minneapolis o a Rotterdam, i governi dei paesi ricchi e potenti faranno di
tutto per assicurarsi che la gente della Tanzania o del Laos preferisca
starsene a casa propria.” Sostituite Laos con Romania e Rotterdam con Milano:
il gioco è fatto. Se non volete essere invasi, finite di invadere. Fino a
quando gli uomini d’affari italiani creeranno povertà nei paesi più deboli, non
potranno ottenere altro che flussi di sventurati che vengono a bussare alle
loro porte.

Eppure questo non basta. Perché se anche non ci fossero invasori nei due sensi
di marcia, anche allora bisognerebbe difendere il diritto alla mobilità della
gente. Perché non si può lasciare la mobilità ai viaggiatori con la VISA e la Lonely Planet. E’
bello anche gettare la propria vita nell’ignoto, spostarsi in un altro paese,
anche a costo di balbettare una lingua estranea, anche solo per inventarsi
un’altra vita. E’ questo che cercano tanti ragazzi rumeni. Farsi un’esperienza
di vita e lavoro in Italia. Come abbiamo fatto tutti noi a Londra. E’ tanto
strano?

Dedica
Dedico questa serie di articoli a P.N., una bambina rom che un giorno, mentre
si trovava su un’auto coi suoi genitori, si è ritrovata con un proiettile
conficcato in testa. Era il 22 maggio 1998 quando i carabinieri di Montaione, 40 km a sud-ovest di Firenze,
ricevettero una chiamata che segnalava la presenza di un’automobile sospetta
con alcuni “zingari” a bordo. Secondo la versione officiale l’auto non si è
fermata all’alt e i carabinieri hanno sparato. Questa versione è stata accolta
dagli inquirenti e i militari sono stati prosciolti da ogni addebito. La
bambina, a quasi dieci anni da questo episodio, è ancora in coma.

www.carmillaonline.com

Attendo interventi, mi interesserebbe aprire una discussione e organizzarci in qualche modo su questa questione…

hurriyya


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